Psicologia e Vissuti


La mia vita. Scritti autobiografici (1856-1869)

1844-1858

È un tratto notevole del cuore umano il fatto che, quando abbiamo subito una grave perdita, non ci sforziamo di dimenticarla, bensì ce la richiamiamo alla mente il più spesso possibile. È come se, continuando a raccontarla, trovassimo un vero e proprio sollievo al nostro dolore.

Nessuno cui stia a cuore la propria evoluzione morale e spirituale può né deve ritenere privo d'interesse riandare alla sua vita passata, collegandone gli eventi principali a determinate riflessioni. Infatti, anche se i germi delle nostre disposizioni spirituali e morali sono già latenti in noi, e il carattere fondamentale è per così dire innato in ognuno, pure l'opera delle circostanze esterne, che nella loro varia molteplicità ci toccano in modo ora più profondo, ora più leggero, è quella che suole conferirci la figura in cui ci atteggiamo come uomini in senso sia morale sia spirituale.

Generalmente la vera amicizia nasce solo sulla base di eguali gioie e dolori; giacché quando le esperienze della nostra vita vengono in contatto con quelle di un'altra, anche le anime si congiungono, e quanto più stretto diviene il legame esterno, tanto più saldo si fa quello interiore.

Sì, possedere dei veri amici è cosa nobile e sublime, e Dio ha grandemente arricchito la nostra vita dandoci dei compagni di viaggio che tendono verso la nostra stessa meta.

1868-1869

Ciò ch'io temo non è l'orrenda figura dietro la mia sedia, ma la sua voce; e nemmeno le parole, bensì il tono terribilmente inarticolato e disumano di questa figura. Sì, se parlasse almeno come parlano gli uomini!

Su verità e menzogna in senso extramorale (1873)

2.

Ci sono epoche nelle quali l’uomo razionale e l’uomo intuitivo stanno l’uno accanto all’altro, il primo col terrore dell’intuizione, il secondo con lo scherno per l’astrazione: tanto restio alla ragione quest’ultimo, quanto all’arte il primo. Entrambi vogliono dominare la vita: l’uno, in quanto sa affrontare le principali necessità con accortezza, intelligenza e coerenza, l’altro in quanto è una sorta di «eroe traboccante di gioia» che non vede quelle necessità e considera reale solo la vita che la simulazione trasforma in apparenza e in bellezza.

Sull’utilità e il danno della storia per la vita (Considerazioni inattuali II, 1874)

1.

Ma egli [l’uomo] si meravigliò anche di se stesso, di non poter imparare a dimenticare e di essere sempre attaccato al passato: per quanto lontano egli corra e per quanto velocemente, la catena lo accompagna. È un prodigio: l'attimo, in un lampo, è presente, in un lampo è passato, prima un niente, dopo un niente, ma tuttavia torna come fantasma e turba la pace di un istante successivo. Continuamente si stacca un foglio dal rotolo del tempo, cade, vola via — e improvvisamente rivòla indietro, in grembo all'uomo. Allora l'uomo dice «mi ricordo» e invidia la bestia che dimentica subito e vede ogni attimo morire realmente, sprofondare nella nebbia e nella notte e spegnersi per sempre. Così l'animale vive in modo non storico: é esso nel presente è come un numero, senza che ne resti una strana frazione, non sa fingere, non nasconde nulla e appare in ogni momento esattamente come ciò che è, non può quindi essere altro che sincero.

L'uomo, invece, si oppone al peso sempre più grande del passato: questo l'opprime o lo piega da parte, rende più greve il suo cammino come un fardello invisibile e oscuro che egli può apparentemente rinnegare e che nei rapporti con i suoi simili rinnega perfino troppo volentieri, per suscitare la loro invidia. Perciò lo commuove, come se si ricordasse di un paradiso perduto, vedere il gregge che pascola o, in più intima vicinanza, il bambino che non ha ancora niente di passato da rinnegare e gioca in beatissima cecità tra i recinti del passato e del futuro. E tuttavia gli si deve disturbare il gioco: solo troppo presto viene richiamato dal suo oblio. Impara allora a comprendere la parola «c'era», quella parola d'ordine con cui la lotta, la sofferenza e il tedio si avvicinano all'uomo per ricordargli che cos'è in fondo la sua esistenza — qualcosa di imperfetto mai perfettibile.

Quando infine la morte porta l'oblio desiderato, essa sopprime insieme il presente e l'esistenza e imprime così il sigillo su quella conoscenza — che l'esistenza, cioè, è soltanto un essere stato senza interruzioni, una cosa che vive del negare e del consumare se stessa, del contraddirsi.

La più piccola felicità, purché esista ininterrottamente e renda felici, è senza paragone una felicità maggiore di una più grande che si presenti soltanto come episodio, come capriccio, per così dire, come pazza idea, fra malessere, desiderio e privazione. Ma sia nella più piccola felicità che in quella più grande è sempre una cosa che fa diventare felicità la felicità: il poter dimenticare o, con espressione più dotta, il poter sentire, mentre essa dura, in modo non storico.

Chi non sa sedersi sulla soglia dell'attimo, dimenticando tutto il passato, chi non sa stare dritto su un punto senza vertigini e paura come una dea della vittoria, non saprà mai che cos'è la felicità e ancora peggio, non farà mai qualcosa che renda felici gli altri. Immaginatevi l'esempio estremo, un uomo che non possedesse affatto la forza di dimenticare, che fosse condannato a vedere ovunque un divenire: un tale uomo non crederebbe più al suo proprio essere, non crederebbe più a se stesso, vedrebbe scorrere ogni cosa l'una dall'altra in un movimento di punti e si perderebbe in questa fiumana del divenire: infine, come vero discepolo di Eraclito, quasi non oserebbe più alzare un dito.

Ad ogni azione occorre l'oblio: come alla vita di tutto ciò che è organico occorre non solo la luce, ma anche l'oscurità. Un uomo che volesse sentire in tutto e per tutto in modo storico, sarebbe simile a colui che fosse costretto ad astenersi dal sonno, o all'animale che dovesse vivere soltanto del suo ruminare e di un sempre ripetuto ruminare. Dunque, è possibile vivere quasi senza ricordare, anzi vivere felicemente, come mostra l'animale; ma è del tutto impossibile vivere in generale senza dimenticare.

Per determinare questo grado e per mezzo di esso il limite in cui il passato deve essere dimenticato, se non deve divenire il becchino del presente, bisognerebbe sapere precisamente quanto sia grande la forza plastica di un uomo, di un popolo, di una civiltà: parlo di quella forza di crescere su se stessi in modo originale, di trasformare e incorporare ciò che è passato ed estraneo, di risanare le ferite, di sostituire ciò che si è perduto, di rimodellare da sé forme infrante. Vi sono uomini che possiedono così poco questa forza che per una unica esperienza, per un unico dolore, spesso specialmente per un unico lieve torto si dissanguano incurabilmente come per una piccolissima scalfittura sanguinante; d'altra parte ve ne sono tal'altri che sono toccati così poco dalle più violente e orribili sventure della vita e persino dalle azioni della loro stessa malvagità che giungono, in mezzo a tutto ciò o immediatamente dopo, ad un discreto benessere e ad una specie di tranquilla coscienza. Quanto più forti sono le radici dell'intima natura di un uomo, tanto più egli si approprierà del passato o lo sottometterà.

La serenità, la buona coscienza, l'azione felice, la fiducia nel futuro — tutto ciò dipende, nel singolo come nel volgo, dal fatto che vi è una linea che separa ciò che si può abbracciare con lo sguardo, ciò che è chiaro, da ciò che non si può rischiarare e che è oscuro; dal fatto che si sa dimenticare al tempo giusto tanto bene quanto si sa, al tempo giusto, ricordare; dal fatto che con forte istinto si sa avvertire quando è necessario sentire storicamente e quando non storicamente.

2.

Quando l'uomo che vuol creare qualcosa di grande, ha bisogno del passato, se ne appropria attraverso la storia monumentale; chi al contrario desidera perseverare nella consuetudine e nell’anticamente venerato, cura il passato come uno storico antiquario; e solo chi è oppresso da un'angustia presente e vuole liberarsi a ogni costo da questo peso, necessita della storia critica, che cioè esamina e condanna. Il trapiantare piante senza discernimento porta gran danno: il critico senza angustia, l'antiquario senza riverenza, il conoscitore della grandezza senza le capacità della grandezza, sono come tali piante divenute erbacce, rese estranee al loro terreno di origine e quindi imbastardite.

3.

Qui risulta chiaro come abbastanza spesso l'uomo abbia necessariamente bisogno, accanto alla maniera monumentale e antiquaria di trattare il passato, di una terza maniera, quella critica; e anche di questa a servizio della vita. Egli deve possedere e di volta in volta adoperare la forza di rompere e sciogliere un passato, per poter vivere: raggiunge tutto questo, trascinando il passato davanti ad un tribunale, interrogandolo scrupolosamente e infine giudicandolo; ma ciascun passato è degno di venir condannato — poiché così stanno le cose per le faccende umane: in esse l'umana potenza e debolezza sono sempre state dominanti. Non è la giustizia a sedere qui per giudicare; tanto meno è l'indulgenza a pronunciare qui il giudizio: bensì solo la vita, quella potenza oscura, travolgente, insaziabilmente bramosa di sé. La sua sentenza è sempre spietata, sempre ingiusta, perché non è mai emanata da una pura sorgente della conoscenza; ma la sentenza risulterebbe identica nella maggior parte delle situazioni, se la pronunciasse la giustizia stessa.

3.

È sempre un processo pericoloso, pericoloso, cioè, per la vita stessa: e uomini o tempi, che siano al servizio della vita in tal maniera, vale a dire giudicando o annientando un passato, sono sempre uomini e tempi pericolosi e in pericolo. Poiché noi ora siamo i risultati di precedenti generazioni, siamo anche i risultati dei loro smarrimenti, passioni ed errori, anzi crimini; non è possibile liberarsi totalmente da questa catena. Se anche biasimiamo quegli smarrimenti e ce ne consideriamo sottratti, tuttavia non è annullato il fatto che noi proveniamo da essi. Nel migliore dei casi perveniamo ad un contrasto tra la natura ereditaria e ancestrale e la nostra conoscenza, od anche alla lotta di una nuova e severa disciplina e ciò che da tempo è acquisito e innato è conquistato e intrinseco; noi seminiamo una nuova consuetudine, un nuovo istinto, una seconda natura, così che la prima isterilisce. È un tentativo di darsi quasi a posteriori passato da cui si vorrebbe discendere, in opposizione a quello da cui si proviene — un tentativo sempre rischioso, poiché è veramente difficile trovare un termine alla negazione del passato e poiché generalmente le seconde nature sono in genere più gracili delle prime.

4.

Immaginiamoci ora il processo spirituale che con ciò si è determinato nell'anima dell'uomo moderno. Il sapere storico scaturisce sempre di nuovo in ogni direzione da fonti perenni, l'estraneo e lo smembrato fa ressa, la memoria dischiude tutte le sue porte e tuttavia non abbastanza, la natura si affatica più che può per accogliere questi ospiti stranieri, ordinarli e venerarli, ma questi stessi sono in guerra tra loro, e appare necessario domarli e sopraffarli tutti, per non soccombere nella loro lotta. L'abitudine ad un'economia domestica così sconnessa, tempestosa e battagliera si muta pian piano in una seconda natura, benché sia fuori questione che questa seconda natura sia molto più debole, molto più agitata e assolutamente più malsana della prima. Infine l'uomo moderno si trascina dietro una massa enorme di indigeribili pietre del sapere, che poi all'occasione rumoreggiano regolarmente nel corpo, come si narra nella favola. Con questo fracasso si tradisce la caratteristica più propria di quest'uomo moderno: la curiosa opposizione di un interno al quale non fa riscontro nessun esterno, e di un esterno al quale non fa riscontro nessun interno, un'opposizione che i popoli antichi non conoscono. Il sapere che viene raccolto a dismisura senza fame, anzi contro il bisogno, ora non agisce più come motivo trasformatore e incalzante verso l'esterno, ma rimane nascosto in un certo caotico mondo interno, che quell'uomo moderno, con singolare superbia, indica come l'«interiorità» a lui peculiare. Inoltre si dice che si possiede il contenuto e che manca solo la forma; cosa che, per ogni essere vivente, è una opposizione assolutamente innaturale. Per questo motivo la nostra cultura moderna manca di un contenuto vitale, perché non la si può pensare senza questa opposizione, vale a dire essa non è una vera cultura ma solo un sapere di una certa specie intorno alla cultura, essa si arresta solo al pensiero della cultura, al sentimento della cultura, ma non ne scaturisce una risoluzione di cultura. Ciò che al contrario è realmente motivo e che si manifesta esternamente in forma di azione, spesso non significa molto di più che un'indifferente convenzione, una pietosa imitazione o persino una grossolana smorfia. Allora il sentimento s'acquieta nell'interiorità, simile a quel serpe che ha inghiottito interi conigli e si stende quindi quietamente al sole e si astiene da tutti i movimenti, eccetto i più necessari. Il processo interiore: questo è ora la cosa stessa, questo è la «cultura» vera e propria.

Schopenhauer come educatore (Considerazioni inattuali III, 1874)

2.

Un'atmosfera scura e tetra aleggia anche intorno alle personalità migliori della nostra epoca, un'eterna scontentezza per la lotta tra ipocrisia e lealtà che si combatte nel loro petto, una irrequietezza nel confidare in se stessi per tutto questo non possono assolutamente più essere guide e allo stesso tempo maestri severi per gli altri.

3.

Così un inglese moderno descrive il pericolo più comune per uomini, straordinari, che vivano in una società legata a ciò che è banale: «Questi strani caratteri dapprima si piegano, poi si immalinconiscono, quindi si ammalano e, infine, muoiono. Uno Shelley non avrebbe potuto vivere in Inghilterra, e una razza di Shelley non sarebbe stata possibile». I nostri Hölderlin e Kleist e tanti altri, perirono per la loro straordinarietà e non sopportarono il clima della cosiddetta cultura tedesca; solo nature di ferro come Beethoven, Goethe, Schopenhauer e Wagner sono capaci di non cedere. Ma anche in loro, si mostra l'effetto della lotta e dello spasimo più defatigante in molti tratti e rughe: il loro respiro si appesantisce, e il tono della voce diventa con facilità troppo violento. Un esperto diplomatico, che aveva visto Goethe e parlato con lui solo di sfuggita, disse: « Voilà un homme, qui a eu des grands chagrins!» tradotto da Goethe con la frase: «ecco qua un altro che si è reso la vita dura! ». «Se nei tratti del nostro viso egli aggiunge non si può cancellare il segno della sofferenza superata, dell'attività svolta, non c'è da meravigliarsi se tutto ciò che rimane di noi e delle nostre aspirazioni porta la stessa traccia.» E questo è Goethe, che i nostri filistei della cultura indicano come il più felice dei Tedeschi, per provare, così, che doveva pur essere possibile una vita felice tra loro con il pensiero recondito che non si deve perdonare a nessuno che, tra loro, si senta infelice e solo.

Pertanto, con massima crudeltà, hanno posto e spiegato praticamente l'assioma, secondo cui, in ogni isolamento, ci sarebbe sempre una colpa segreta.

Egli [Schopenhauer] ci insegna a distinguere tra le fonti reali e quelle illusorie della felicità umana: come né l'arricchirsi, né l'essere onorati, né l'essere dotti possa sollevare il singolo dalla amarezza per la mancanza di valore della propria esistenza, e come, invece, l'aspirazione a questi beni abbia senso solo se inserita in uno scopo globale superiore e trasfigurante: conquistare potere per aiutare con esso la physis, correggendone un po' le follie e goffaggini. Dapprima certo ancora per se stessi soltanto; ma attraverso se stessi, infine, per tutti. E un'aspirazione questa che certo porta, nel profondo del cuore, alla rassegnazione: che cosa, infatti, e di quanto, può ancora esser migliorato sia nel singolo che nel generale!

Qua e là si incontra qualcuno dotato per natura di sguardo acuto, i suoi pensieri seguono volentieri il doppio andamento dialettico: quanto è facile allora, se abbandona imprudentemente le redini al proprio talento, che come uomo vada in rovina e conduca una vita quasi da fantasma nella «pura scienza»; o che, abituato a ricercare nelle cose il pro e il contro, si smarrisca completamente di fronte alla verità e debba, quindi, vivere senza coraggio e senza fiducia, nella negazione e nel dubbio, in uno stato d'animo corrosivo, scontento, in una mezza speranza, e nell'attesa della delusione: «neanche un cane potrebbe vivere a lungo così!». Il terzo pericolo è l'irrigidimento nella morale e nell'intelletto: l'uomo lacera il vincolo che lo legava al suo ideale, smette di essere fecondo in questo o in quel campo, smette di trapiantarsi; diventa, ai fini della cultura, gracile e inutile. L'unicità del suo essere è divenuto atomo indivisibile, incomunicabile, fredda pietra. E così è possibile andare in rovina per la propria unicità come per la paura di essa, per se stesso o per la rinuncia a se stesso, per l'anelito e per l'irrigidimento: e vivere, in generale, significa essere in pericolo.

Se ogni grande uomo, di preferenza, è considerato proprio come l'autentico figlio del suo tempo e comunque soffre di tutti i suoi malanni con maggiore intensità e sensibilità di tutti gli altri uomini più piccoli la lotta di un tale grande contro la sua epoca è solo apparentemente una battaglia insensata e deleteria contro se stesso. Ma appunto solo apparentemente; poiché nel suo tempo egli combatte ciò che gli impedisce di essere grande, e ciò in lui non significa altro che essere liberamente e completamente se stesso.

Ne consegue che la sua inimicizia in fondo è indirizzata contro ciò che è sì in lui stesso, ma che però non è propriamente lui stesso, cioè contro l'impuro mescolarsi e coesistere di ciò che è immescolabile e non unificabile in eterno, contro la falsa saldatura dell'attuale al suo inattuale; e alla fine il presunto figlio si rivela figliastro del suo tempo.

3.

Su questa terra si può trovare e raggiungere qualcosa di più alto e più puro di una simile vita attuale e che chiunque giudichi e conosca l'esistenza solo sulla base di questa odiosa forma, le fa una amara ingiustizia.

4.

Da un secolo siamo preparati a vere e proprie scosse dalle fondamenta; e se di recente si è cercato di contrapporre a questa profondissima tendenza moderna a rovinare o a esplodere, la forza costitutiva del cosiddetto Stato nazionale, anche questo, per molto tempo ancora, non sarà altro che un incremento alla insicurezza e alla minaccia generale.

Che i singoli si comportino come se non sapessero nulla di queste angosce, non ci induce in errore: la loro inquietudine è testimonianza di quanto invece ne siano pienamente consapevoli; essi pensano a se stessi con una furia ed una esclusività con cui mai degli uomini hanno pensato a se stessi. essi costruiscono e piantano per il loro giorno, e la caccia alla felicità non potrà mai essere più grande di quando dev'essere afferrata tra l'oggi e il domani: perché dopo domani, forse, la stagione della caccia sarà definitivamente chiusa. Noi viviamo l'epoca degli atomi, del caos atomistico.

4.

Chi intende la propria vita solo come un punto nello sviluppo di una generazione o di uno Stato o di una scienza e vuole, quindi, appartenere completamente al racconto del divenire, alla storia, non ha compreso la lezione impartitagli dell'esistenza e deve impararla un'altra volta. Questo eterno divenire è un ingannevole teatrino di marionette, per il quale l'uomo dimentica se stesso; è la vera e propria distrazione che disperde l'individuo a tutti i venti, l'infinito e sciocco gioco che il tempo, grande fanciullo, gioca davanti a noi e con noi. L'eroismo della veridicità consiste dunque nello smettere un giorno di essere il giocattolo del tempo. Nel divenire tutto è vuoto, ingannevole, piatto e degno del nostro disprezzo; l'enigma che l'uomo deve sciogliere, lo può risolvere solo partendo dall'essere, nell'essere così e non in altro modo, in ciò che non è soggetto al trapasso. Ora egli comincia a esaminare in quale misura sia concresciuto con il divenire, e in quale misura con l'essere un compito immane si erge davanti alla sua anima: distruggere tutto ciò che diviene, portare alla luce tutto ciò che vi è di falso nelle cose.

L'uomo eroico disprezza il suo benessere o il suo malessere, le sue virtù e i suoi vizi e comunque il misurare le cose su se stesso; da se stesso non si aspetta più nulla e in tutte le cose vuole penetrare con lo sguardo fino a raggiungere questo fondo privo di speranza. La sua forza è nel dimenticare se stesso; e se si ricorda di sé, misura la distanza tra il suo sommo fine e se stesso, ed è come se vedesse dietro e sotto di sé un meschino ammasso di scorie. Gli antichi pensatori cercarono con tutte le loro forze la felicità e la verità ma mai l'uomo troverà ciò che è costretto a cercare, così suona il malvagio principio della natura. Ma per chi cerca in tutte le cose la non verità e volontariamente si fa compagno dell'infelicità, si prepara forse un altro miracolo della delusione: qualcosa di indicibile, di cui felicità e verità non sono che idolatriche imitazioni, gli si avvicina, la terra perde la sua gravità, gli eventi e le forze della terra diventano elementi di un sogno come nelle sere di estate, intorno a lui tutto si trasfigura. Per chi sta a osservare è come se proprio allora cominciasse a svegliarsi, come se ancora le nubi di un sogno che si dilegua giocassero intorno a lui. Ma anche queste saranno dissipate: e allora sarà giorno.-

5.

Gli uomini più profondi hanno sempre provato compassione per gli animali, perché essi soffrono della vita e tuttavia non possiedono la forza di volgere contro se stessi l'aculeo della sofferenza e intendere la propria esistenza metafisicamente.

Essere così ciecamente e stoltamente attaccati alla vita, senza alcuna prospettiva di un premio superiore, ben lontani dal sapere che così si è puniti e perché, bensì anelare a questa pena, come a una felicità con la stoltezza di una orribile brama questo significa essere una bestia; e se è vero che tutta la natura tende all'uomo, essa così ci fa capire che l'uomo è necessario alla sua liberazione dalla condanna della vita bestiale e che, infine, l'esistenza in lui ha dinanzi a sé uno specchio, sul cui fondo la vita non appare più senza senso, ma in tutto il suo significato metafisico. Riflettiamo dunque: dove finisce la bestia e dove comincia l'uomo? Quell'uomo che solo importa alla natura! Finché si aspira alla vita come a una felicità, non si è ancora sollevato lo sguardo al di sopra dell'orizzonte della bestia, si vuole soltanto con maggiore consapevolezza ciò che la bestia cerca spinta da cieco istinto. Ma così succede a noi tutti per la maggior parte della vita: in genere non usciamo dalla bestialità, noi stessi siamo le bestie che sembrano soffrire senza senso. Ci sono momenti, però, in cui ce ne rendiamo conto: allora le nuvole si squarciano e vediamo come, insieme con la natura, tendiamo verso l'uomo, come verso qualcosa che è al di sopra di noi. Rabbrividendo, in quell'improvviso chiarore ci guardiamo indietro e intorno: là corrono le raffinate bestie da preda e noi in mezzo a loro. L'immenso agitarsi degli uomini sul grande deserto della terra, il loro fondare città e Stati, il loro guerreggiare, il loro instancabile adunarsi e disperdersi, il loro correre confusamente, il loro apprendere l'uno dall'altro, il loro reciproco ingannarsi e calpestarsi, il loro gridare nella disgrazia e il loro ululare di gioia nella vittoria tutto è continuazione della bestialità: come se l'uomo dovesse intenzionalmente essere educato alla rovescia ed essere defraudato della sua disposizione metafisica, come se anzi la natura, dopo aver desiderato e lavorato tanto a lungo per l'uomo, adesso si ritiri tremante da lui e preferisca ritornare all’inconsapevolezza dell’istinto.

Sapersi come un frutto sull'albero che per la troppa ombra non potrà mai maturare e vedere davanti a sé, vicinissimo, il raggio del sole, di cui si ha bisogno!

E così, infine, la natura ha bisogno del santo, in cui l'io è completamente fuso e la cui vita sofferente non è più, o non è quasi più avvertita individualmente, bensì come un profondo sentimento di eguaglianza, partecipazione e unità con tutto ciò che è vivente: del santo nel quale si manifesta quel miracolo della metamorfosi, che il gioco del divenire non coglie mai, quel finale, supremo processo di umanizzazione a cui tutta la natura tende e incalza, per la sua redenzione da se stessa. Non c'è dubbio, tutti noi siamo affini e legati col santo così come lo siamo col filosofo e coll'artista; vi sono momenti e quasi scintille del più limpido amoroso fuoco, alla cui luce non intendiamo più la parola «io»; al di là del nostro essere c’è qualcosa che in quei momenti diventa un al di qua e perciò dal più profondo del cuore noi bramiamo il ponte tra qui e là.

Richard Wagner a Bayreuth (Considerazioni inattuali IV, 1876)

1.

Si sa che, in un momento di pericolo eccezionale, oppure in genere di fronte a una decisione importante per la loro vita, gli uomini condensano in una visione interiore infinitamente accelerata tutto quel che hanno vissuto sino allora, e riconoscono con rarissima acutezza le cose più vicine come quelle più lontane. Che cosa può aver visto Alessandro Magno nell'istante in cui fece bere dalla stessa coppa Asia ed Europa?

2.

Uno sforzo possente, al quale sia dato di guardare continuamente al suo insuccesso, rende cattivi; l'insufficienza può a volte risiedere nelle circostanze, nell'irrevocabilità del destino, e non nella mancanza di forza; ma colui che non può rinunciare allo sforzo nonostante questa insufficienza, si sente per così dire non all'altezza del suo giuramento, e quindi irritabile e ingiusto. Forse cercherà negli altri le cause del suo fallimento, e potrà addirittura con odio appassionato trattare tutti da colpevoli; forse anche procederà caparbiamente per vie secondarie e nascoste, oppure ricorrerà alla violenza; così accade che, sulla via del meglio, anche nature buone si imbarbariscano.

4.

Non può esservi per gli individui modo di vivere più bello che maturare per la morte e immolarsi nella battaglia per la giustizia e per l'amore.

Non si può essere felici, sinché tutti attorno a noi soffrono e si procurano sofferenza; non si può essere morali, sinché a regolare il corso delle cose umane stanno la violenza, l'inganno e l'ingiustizia; non si può neanche essere saggi, finché tutta l'umanità non si sia cimentata in una gara per la saggezza e non introduca nel modo più saggio l'individuo nella vita e nel sapere.

Come potremmo reggere a questo triplice senso di insufficienza, se già nella nostra lotta, nelle nostre aspirazioni e nel nostro soccombere non fossimo in grado di riconoscere qualcosa di sublime e di importante, e non imparassimo dalla tragedia a trovar piacere nel ritmo della grande passione e nel sacrificio per essa?

Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi (1878)

Volume I

62.

Intemperanza nella vendetta. - Uomini grossolani che si ritengono offesi sono soliti sopravvalutare il più possibile l’entità dell’offesa, e ne raccontano la causa in termini di forte esagerazione, solo per potersi meglio avvoltolare nel sentimento di odio e di vendetta una volta destato.

82.

Pelle dell’anima. - Come le ossa, le carni, gli intestini e i vasi sanguigni sono avvolti in una pelle, che rende sopportabile la vista dell’uomo, così i moti e le passioni dell’anima sono avvolti dalla vanità; questa è la pelle dell’anima.

99.

L’innocenza. nelle cosiddette cattive azioni. - Tutte le azioni «cattive» sono motivate dall’istinto di conservazione o, ancor più esattamente, dal desiderio dell’individuo di cercare il piacere e fuggire il dolore: così motivate, però, esse non sono cattive. Il «procurar dolore in sé» non esiste, tranne che nel cervello dei filosofi, e così pure il «procurar piacere in sé» (compassione nel senso di Schopenhauer). Nella fase precedente alla nascita dello Stato noi uccidiamo l’essere, sia esso scimmia o uomo, che vuol prenderci il frutto dell’albero nel momento in cui noi abbiamo fame e corriamo verso l’albero: cosa che faremmo ancor oggi, con un animale, se ci trovassimo a percorrere una piaga inospitale.

Le cattive azioni che oggi più ci indignano, si fondano sull’errore che colui che ce le infligge possieda una libera volontà, e dunque che sia a sua discrezione non farci questo male. Credere in questa possibilità di arbitrio suscita l’odio, il desiderio di vendetta, la ferocia, tutto l’incattivirsi della fantasia, mentre ci adiriamo molto meno con un animale, in quanto lo consideriamo irresponsabile. Far del male non per istinto di conservazione, ma per rivalsa, è la conseguenza di un giudizio errato ed è perciò altrettanto incolpevole.

Nella fase che precede lo Stato, il singolo può esser duro e feroce verso altri esseri solo per spaventarli, per assicurare la propria esistenza mediante tali prove di potenza. Così agisce il violento, il potente, l’originario fondatore di uno Stato, che sottomette a sé i più deboli. Egli ha diritto a far ciò, quel diritto che ancor oggi lo Stato si arroga; o piuttosto: non esiste alcun diritto che lo possa impedire. Il terreno per ogni moralità può esser preparato solo quando un individuo più grande o un individuo collettivo, come la società o lo Stato, sottomette i singoli, quindi li estrae dal loro isolamento e li ordina in una associazione.

La moralità è preceduta dalla costrizione, anzi essa stessa è per un certo periodo costrizione, alla quale ci si rimette per evitare il dolore. Più tardi essa diventa costume, poi libera obbedienza, e infine quasi istinto: allora essa è legata al piacere, come ogni cosa che sia da tempo abituale e naturale - e si chiama virtù.

101.

Non giudicate. - Nel considerare epoche passate, bisogna guardarsi dal biasimarle ingiustamente. L’ingiustizia della schiavitù, la ferocia con la quale si assoggettavano uomini e popoli, non si debbono misurare con il nostro metro. Infatti a quei tempi l’istinto della giustizia non era ancora sviluppato come oggi. Chi potrebbe rimproverare al Calvino di Ginevra il rogo del medico Serveto? Fu un’azione conseguente, che scaturiva dalle sue convinzioni, e così anche l’Inquisizione aveva le sue buone ragioni: le idee dominanti erano sbagliate e producevano conseguenze che oggi ci appaiono dure, solo perché ci sono divenute estranee quelle idee. Del resto, che cos’è il rogo di un individuo in confronto alle eterne pene infernali per quasi tutti? Eppure allora quell’idea dominava tutto il mondo, senza pregiudicare sostanzialmente, con la sua molto maggiore terribilità, l’idea di un dio.

Anche presso di noi i fanatici politici vengono trattati con durezza e crudeltà ma noi, per aver imparato a credere nella necessità dello Stato, in questo non sentiamo la crudeltà come là dove riproviamo certe idee. La crudeltà verso gli animali, propria dei bambini e degli italiani, si riconnette a una incomprensione: l’animale, soprattutto per gli interessi della dottrina ecclesiastica, è stato posto troppo indietro rispetto all’uomo.

- Anche molte cose terribili e disumane della storia, alle quali non si vorrebbe credere, si attenuano se si considera che chi comanda e chi esegue sono due persone diverse: il primo non ha la visione diretta delle cose e quindi la sua fantasia non subisce alcuna forte impressione, il secondo ubbidisce a un superiore e si sente non responsabile. Gran parte dei principi e dei capi militari facilmente sembrano, per mancanza di fantasia, duri e crudeli senza esserlo.

L’egoismo non è malvagio giacché in noi l’immagine del «prossimo» - la parola è di origine cristiana e non corrisponde alla verità - è molto debole, e verso di esso noi ci sentiamo liberi e irresponsabili quasi come verso una pianta o una pietra. Che l’altro soffra, bisogna impararlo: e non lo si potrà mai imparare del tutto.

102.

«L’uomo agisce sempre bene.» - Noi non accusiamo la natura di immoralità quando ci manda un temporale e ci fa bagnare: perché chiamiamo immorale l’uomo che fa il male?

Perché in questo caso supponiamo una volontà libera, dominatrice nel suo arbitrio, e nell’altro, invece, una necessità. Ma questa distinzione è un errore. Inoltre: neppur il far del male volontariamente, noi lo chiamiamo sempre immorale; ad esempio, si uccide una zanzara intenzionalmente e senza esitazione, perché il suo ronzio ci infastidisce, si punisce il delinquente intenzionalmente e gli si fa del male per proteggere noi e la società.

Nel primo caso è l’individuo che, per conservarsi o anche per non procurarsi un dolore, fa intenzionalmente del male; nel secondo caso è lo Stato.

Ogni morale ammette che si arrechi danno volontariamente in caso di legittima difesa: cioè quando si tratta della propria conservazione. Ma questi due punti di vista bastano a spiegare tutte le cattive azioni che l’uomo commette contro l’uomo: si vuole il nostro piacere o si vuole allontanare il dolore; in certo qual modo si tratta pur sempre della nostra conservazione. Socrate e Platone hanno ragione: qualunque cosa faccia, l’uomo fa sempre il bene, ossia: ciò che gli sembra buono (utile), a seconda del livello del suo intelletto e del grado di volta in volta raggiunto dalla sua razionalità.

104.

Legittima difesa. - Se in generale si ammette come morale la legittima difesa, si debbono anche ammettere quasi tutte le manifestazioni del cosiddetto egoismo immorale: si procura dolore, si ruba o si uccide per conservare se stessi o per difendersi, per prevenire la sventura personale; si mente quando astuzia e simulazione siano il giusto mezzo per la propria conservazione. Nuocere intenzionalmente, se si tratta della nostra esistenza o della nostra sicurezza (conservazione del nostro benessere) viene concesso come morale; da questo punto di vista anche lo Stato fa del male, quando infligge delle pene.

Nel danno involontario non può naturalmente esservi immoralità, qui governa il caso.

Esiste allora un tipo di danno volontario, in cui non si tratti della nostra esistenza, della conservazione del nostro benessere? Esiste un nuocere per pura malvagità, ad esempio nella crudeltà? Se si ignora quanto male faccia un’azione, allora non v’è alcuna azione malvagia; così, il fanciullo non è malvagio, non è cattivo verso l’animale: lo esplora e lo distrugge come un suo giocattolo. Ma si sa mai completamente quanto un’azione faccia male a un altro? Sin dove giunge il nostro sistema nervoso, noi ci proteggiamo dal dolore: se esso arrivasse più in là, sin dentro il nostro prossimo, noi non faremmo del male a nessuno (salvo nei casi in cui lo facciamo a noi stessi, vale a dire quando ci tagliamo per guarire, e ci adoperiamo e ci diamo pena per la nostra salute). Noi deduciamo per analogia che qualcosa faccia male a qualcuno, e tramite la memoria e la forza della fantasia può accadere che ci sentiamo male noi stessi. Ma quale differenza resta sempre tra il mal di denti e il dolore (compassione) che la vista del mal di denti suscita?

Dunque: nel far male per cosiddetta cattiveria, il grado del dolore provocato ci è in ogni caso sconosciuto; ma, in quanto in questa azione è insito un piacere (sentimento della propria potenza, della propria forte eccitazione), l’azione viene compiuta per conservare il benessere dell’individuo e cade perciò sotto un punto di vista simile a quello della legittima difesa, della legittima menzogna. Senza piacere non c’è vita; la lotta per il piacere è la lotta per la vita. Se il singolo combatte questa lotta in modo che gli uomini lo dicano buono, o la combatte in modo che lo dicano cattivo, questo lo decide la misura e la qualità del suo intelletto.

107.

Irresponsabilità e innocenza. - La totale irresponsabilità dell’uomo rispetto alle sue azioni e al suo essere è la goccia più amara che chi vuole conoscere deve inghiottire, se nella responsabilità e nel dovere era avvezzo a vedere la patente di nobiltà della propria umanità. Tutte le sue valutazioni, le sue preferenze e avversioni perdono in tal modo ogni valore e son diventate false: il suo più profondo sentimento che egli tributava a chi soffriva, all’eroe, si rivolgeva a un errore; egli non può più lodare né biasimare, in quanto non ha senso lodare o biasimare la natura e la necessità. Come egli ama, ma non loda, la buona opera d’arte in quanto essa non può nulla per se stessa, come si pone davanti a una pianta, così deve porsi davanti alle azioni degli uomini e alle sue proprie. In esse può ammirare la forza, la bellezza,la pienezza, ma non può trovarvi dei meriti: il processo chimico e degli elementi, lo strazio del malato che anela di guarire, sono tanto dei meriti quanto poco lo sono quelle lotte dello spirito e quegli stati di emergenza in cui si vien trascinati qua e là da motivi diversi, sino a che finalmente ci si decide per il più potente di essi - si fa per dire (ma, in verità, sino a che il motivo più potente decide di noi).

Ma tutti questi motivi, con qualsiasi nome altisonante vogliamo chiamarli, sono cresciuti dalle stesse radici nelle quali crediamo si annidino i cattivi veleni; tra azioni buone e azioni cattive non c’è differenza di genere, ma tutt’al più di grado. Azioni buone sono cattive azioni sublimate; azioni cattive sono buone azioni inasprite e corrotte. L’unico desiderio dell’individuo, quello del godimento di sé (e insieme la paura di restarne privo), si soddisfa in tutte le circostanze, l’uomo può agire come vuole, cioè come deve: sia in atti di vanità, vendetta, piacere, utilità, malvagità, astuzia, sia in atti di dedizione, compassione, conoscenza. La maggiore o minore capacità di giudizio stabilisce in quale direzione ciascuno si farà trasportare da questo desiderio; ogni società, ogni individuo ha sempre presente una gerarchia dei beni, in base alla quale determina le sue azioni e giudica quelle altrui. Ma questo criterio cambia continuamente, molte azioni vengon dette cattive mentre sono solo stupide, in quanto il grado di intelligenza che le ha scelte era molto basso. Anzi, in un certo senso, ancor oggi tutte le azioni sono stupide, perché il grado di intelligenza attualmente raggiungibile verrà sicuramente superato: e allora, a guardare indietro, tutto il nostro agire e giudicare apparirà così limitato e avventato, come limitato e avventato appare oggi a noi l’agire e il giudicare di popolazioni arretrate e selvagge.

Rendersi conto di tutto ciò può esser molto doloroso, ma poi c’è una consolazione: questi dolori sono le doglie del parto. La farfalla vuol rompere il suo involucro, vi dà strappi, lo lacera: allora l’abbaglia e la turba la luce sconosciuta, il regno della libertà. In uomini capaci di quella tristezza - quanto pochi saranno! - viene fatto questo primo esperimento: se l’umanità possa trasformarsi da morale in saggia. II sole di un nuovo evangelo getta il suo primo raggio sulla più alta vetta dell’anima di quei singoli: là le nebbie si addensano più fitte che mai, e l’uno accanto all’altro stanno il più chiaro splendore e il più cupo crepuscolo. Tutto è necessità - questo dice la nuova conoscenza; ed essa stessa è necessità. Tutto è innocenza: e la conoscenza è la via per comprendere questa innocenza. Se piacere, egoismo, vanità sono necessari per produrre i fenomeni morali e la loro massima fioritura, il senso della verità e della giustizia della conoscenza, l’errore e lo smarrimento della fantasia erano l’unico mezzo con cui l’umanità poteva lentamente sollevarsi a questo grado di illuminazione e liberazione di sé: chi potrebbe disprezzare questi mezzi? Chi potrebbe esser triste, se scorge la meta cui conducono quelle vie?

216.

Gesti e linguaggio. - Più antica del linguaggio è l’imitazione dei gesti, che avviene spontaneamente e ancor oggi, che si tende in generale a reprimere il linguaggio gestuale e si impara a dominare i propri muscoli, è tanto forte che non possiamo vedere un movimento su un volto senza che si produca una innervazione sul nostro (si può osservare che uno sbadiglio simulato provoca, in chi guarda, uno sbadiglio naturale). Il gesto imitato riconduceva colui che imitava al sentimento che si esprimeva sul volto e sul corpo di chi era oggetto di quell’imitazione. Così si imparò a intendersi: così il bambino ancora impara a capire la madre. In generale, sentimenti dolorosi possono essere stati espressi bene anche con gesti che a loro volta producevano dolore (per esempio strapparsi i capelli, percuotersi il petto, contrarre e torcere violentemente i muscoli facciali).

Di contro: i gesti del piacere erano essi stessi piacevoli e si prestavano dunque agevolmente a comunicare l’intesa (il riso come espressione dell’essere solleticati, che è piacevole, serviva a sua volta a esprimere altri sentimenti di piacere).

Non appena ci si capì a gesti, poté d’altra parte nascere un simbolismo del gesto: voglio dire, ci si poté accordare su un linguaggio di segni e di suoni, in modo cioè che dapprima si produsse suono e gesto ( al quale il primo si aggiungeva simbolicamente), e poi solo il suono.

220.

L’al di là nell’arte. - Non senza profondo dolore si ammette che gli artisti di ogni tempo, nel loro slancio più alto, han portato a celeste trasfigurazione proprio quelle idee che noi oggi riconosciamo come false: essi sono i glorificatori degli errori religiosi e filosofici dell’umanità, né sarebbero potuti esserlo senza la fede nell’assoluta verità di quelli. Ora, se in genere viene a mancare la fede in tale verità, impallidiscono i colori iridati intorno ai limiti ultimi del conoscere e del fantasticare umani: allora non potrà più fiorire quel genere di arte che, come la Divina Commedia, i quadri di Raffaello, gli affreschi di Michelangelo, le cattedrali gotiche, ha come presupposto un significato non soltanto cosmico, ma anche metafisico, degli oggetti dell’arte. Che sia esistita una tale arte, una tale fede di artisti, diventerà una commovente leggenda.

268.

Per la storia della guerra nell’individuo. - In una singola vita umana che attraversa varie culture, noi troviamo concentrata la lotta che solitamente si svolge tra due generazioni, tra padre e figlio: la vicinanza della parentela acuisce questa lotta, giacché ciascuno del due partiti vi coinvolge senza riguardi l’intimo, a lui così ben noto, dell’altra parte, e così questa lotta sarà durissima nell’individuo singolo; qui ogni nuova fase calpesterà quella precedente con crudele ingiustizia, misconoscendo i suoi mezzi e i suoi scopi.

293.

Benevola finzione - Spesso, nei rapporti con gli uomini, è necessario fingere benevolmente di non indovinare i motivi delle loro azioni.

300.

Doppia specie di uguaglianza. - La brama di uguaglianza può manifestarsi sia nel desiderio di abbassare tutti al proprio livello (sminuendo, relegando, facendo lo sgambetto), sia in quello di elevarsi con tutti (riconoscendo, aiutando, rallegrandosi dei successi altrui)

314.

Riguardoso. - Non voler offendere nessuno, non voler nuocere a nessuno può indicare sia una mentalità giusta, sia una mentalità pavida.

330.

Grazie. - A un animo delicato pesa il sapere qualcuno tenuto a dirgli grazie; a un animo rozzo pesa il sapersi obbligato a dir grazie a qualcuno.

356.

Il parassita. - E’ indice di una totale mancanza di un nobile modo di sentire il fatto che uno preferisca vivere in dipendenza, a spese altrui, solo per non dover lavorare, spesso con un astio segreto verso coloro da cui dipende.

358.

Pretendere compassione è segno dl presunzione. - Ci sono persone che, quando si adirano e offendono gli altri, innanzitutto pretendono che uno non se ne abbia a male, e poi che le si compianga per essere soggette a parossismi così violenti: tanto grande è l’umana presunzione.

370.

Sfogo del malumore. - L’uomo al quale non riesce qualcosa preferisce addebitare questo suo insuccesso alla cattiva volontà di un altro anziché al caso. La sua irritazione si mitiga al pensiero che alla base della cattiva riuscita vi sia una persona e non una cosa; infatti di una persona ci si può vendicare, mentre bisogna ingoiare le nequizie del caso.

607.

Malumore verso gli altri e verso il mondo. - Quando, come tanto spesso accade, sfoghiamo sugli altri il malumore che in realtà proviamo contro noi stessi, in fondo cerchiamo di offuscare e ingannare il nostro giudizio: vogliamo motivare questo malumore a posteriori con gli errori e i difetti degli altri, e perdere così di vista noi stessi.

Volume II

47.

La farsa di molti laboriosi. - Con un eccesso di fatica si conquistano del tempo libero e dopo non sanno cosa farne, se non contare le ore sino a che sono trascorse.

54.

La collera prosciuga l'anima e ne porta alla luce il sedimento. Pertanto, quando non si può arrivare in altro modo alla chiarezza, bisogna saper fare andare in collera chi ci sta intorno, i nostri seguaci e i nostri avversari, per apprendere tutto ciò che accade e viene pensato contro di noi nel profondo.

59.

Finta compassione. - Si finge compassione quando ci si vuol mostrare superiori al sentimento dell'ostilità: ma di solito invano. Di questo non ci si accorge senza che quel sentimento ostile si accresca fortemente.

62.

Gioia condivisa. - Il serpente che ci morde intende farci male, e ne prova gioia; l'animale più infimo può rappresentarsi un dolore altrui. Ma rappresentarsi la gioia altrui e rallegrarsene è il privilegio più alto degli animali superiori e, persino tra questi, accessibile solo agli esemplari più scelti - è dunque un raro humanum.

74.

Un errore più amaro. - Offende in modo irreparabile lo scoprire che là dove si era convinti di essere amati, si era considerati solo una suppellettile, un gingillo da salotto, grazie al quale il padrone di casa poteva sfogare davanti agli ospiti la propria vanità.

75.

Amore e dualità. - Che altro è l'amore, se non comprendere e gioire del fatto che un altro viva, agisca e senta in modo diverso e opposto al nostro? L'amore, per travalicare i contrasti attraverso la gioia, non deve toglierli né negarli. - Persino l'amore verso se stessi contiene come presupposto la non mescolabile dualità (o molteplicità) in una stessa persona.

77.

Eccesso. - Madre dell'eccesso non è la gioia, ma la mancanza di gioia.

223.

Dove si deve viaggiare. - L'immediata osservazione di sé non basta affatto a conoscere se stessi: ci occorre la storia, poiché il passato continua a fluire in noi in cento onde; noi stessi anzi non siamo nulla se non quello che istante per istante percepiamo di questo fluire. E persino qui, quando vogliamo discendere il fiume dell'apparentemente più nostro e personale essere, vale il detto di Eraclito: nessuno scende due volte nello stesso fiume...

- Così conoscenza di sé diviene conoscenza del tutto in rapporto a tutto il passato: così come, dopo un'altra serie di osservazioni, che qui accenniamo soltanto, negli spiriti più liberi e più lungimiranti autodeterminazione e autoeducazione potrebbero diventare un giorno determinazione del tutto in rapporto a tutta l'umanità futura.

245.

Vantaggio e svantaggio nello stesso malinteso. - Il muto imbarazzo di una testa fine di solito viene interpretato da parte dei non fini come silenziosa superiorità, ed è molto temuto; mentre accorgersi dell'imbarazzo produrrebbe benevolenza.

247.

Costringersi all'attenzione. - Non appena notiamo che una persona, nei suoi rapporti o nei suoi colloqui con noi, deve costringersi all'attenzione, abbiamo una validissima prova che essa non ci ama o non ci ama più.

256.

Avviso ai disprezzati. - Se si è inequivocabilmente scesi nella stima degli uomini, ci si attenga coi denti al ritegno nei rapporti sociali: altrimenti si fa capire agli altri di essere discesi anche nella propria stima. Il cinismo nei rapporti è segno che l'uomo, in solitudine, tratta se stesso come un cane.

262.

Profondo e torbido. - Il pubblico scambia facilmente colui che pesca nel torbido con colui che attinge dal profondo.

270.

L'eterno fanciullo. - Noi pensiamo che la favola e il gioco appartengano alla fanciullezza: miopi che siamo! Come se potessimo vivere, in una qualsiasi età, senza favola e gioco! Certo, li definiamo e li sentiamo diversamente, ma proprio questo dice che si tratta della stessa cosa - infatti anche il fanciullo sente il gioco come il suo lavoro, e la favola come la sua verità. La brevità della vita dovrebbe trattenerci dal fare pedanti distinzioni di età - come se ciascuna di esse portasse qualcosa di nuovo -, e un poeta dovrebbe una volta rappresentare l'uomo di duecent'anni, quello che realmente vive senza favole e gioco.

275.

Trapianto. - Se si è impegnato il proprio spirito a dominare la smoderatezza delle passioni, talvolta ciò accade con l'incresciosa conseguenza di trasferire questa smoderatezza nello spirito, e di eccedere per il futuro nel pensare e nel voler conoscere.

280.

Crudele idea All'amore. - Ogni grande amore porta con sé il crudele pensiero di uccidere l'oggetto dell'amore, affinché una volta per tutte sia sottratto all'empio gioco del mutamento: l'amore infatti teme più il mutamento che la distruzione.

Aurora (1881)

32.

Il freno. - Soffrire moralmente e poi sentirsi dire che in questo genere di sofferenza c'è, al fondo, un errore, questo indigna. C'è anzi un così singolare conforto nel dir di sì col proprio soffrire ad un «mondo della verità più profondo» di ogni altro mondo, e si preferisce molto di più soffrire e in ciò sentirsi innalzati al di sopra della realtà (per la coscienza di avvicinarsi così a quel «superiore mondo della verità»), piuttosto che starsene senza dolore e quindi senza questo sentimento di superiore sublimità. Così è l'orgoglio e l'abituale modo di soddisfarlo, che tendono a frenare la nuova comprensione della morale.

Quale forza si dovrà dunque impiegare, per rimuovere questo freno? Più orgoglio? Un nuovo orgoglio?

La gaia scienza (1882)

Libro primo

8.

Virtù inconsapevoli.

Tutte le caratteristiche di cui un uomo è consapevole ― ovvero quelle la cui visibilità ed evidenza egli presuppone anche per il suo ambiente ― sono sottoposte a leggi di sviluppo completamente diverse rispetto a quelle caratteristiche che gli sono ignote o poco note e che per la loro finezza sono celate anche agli occhi dell'osservatore più raffinato e sanno nascondersi come dietro il niente...

Le nostre qualità morali visibili, e nella fattispecie quelle che sono credute visibili, seguono il loro corso ― e anche quelle invisibili, che non sono né ornamento né arma rispetto agli altri, seguono il loro corso: completamente diverso, con ogni probabilità, da quelle linee e finezze e sculture che forse compiacerebbero un Dio munito di microscopio divino.

Libro terzo

117.

II rimorso di coscienza nel gregge.

Nelle epoche più lunghe e remote dell'umanità il rimorso di coscienza era ben diverso da quello odierno. Oggi ci si sente responsabili soltanto per quello che si vuole e si fa, e si trova il proprio orgoglio in se stessi: tutti i nostri maestri di diritto prendono le mosse da questo senso di sé e da questa sensazione di piacere del singolo, come se fossero questi, da sempre, la sorgente da cui è sgorgato ogni diritto. Ma per tutta l'epoca più lunga dell'umanità non c'è stato niente di più temibile che sentirsi singolo. Essere soli, avere una sensibilità individuale, né ubbidire né dominare, significare un individuo, - questo allora non era un piacere, ma una punizione, essere «individuo» era una condanna. La libertà di pensiero era il disagio per antonomasia; Mentre noi avvertiamo legge e inserimento come danno e coercizione, allora era l'egoismo una cosa dolorosa, una vera pena. Essere se stessi, valutarsi secondo criteri e pesi propri: questo era allora contrario al giusto.

Un'inclinazione in tal senso era considerata follia, perché all'essere soli erano associati ogni miseria e terrore. Allora la «libera volontà» aveva la sua cattiva coscienza in quanto gli era più prossimo: e quanto meno liberamente si agiva, tanto più dall'azione parlava l'istinto del gregge e non la sensibilità personale, tanto più ci si riteneva morali. Tutto ciò che nuoceva al gregge, che il singolo lo avesse voluto o meno, faceva provare al singolo rimorsi di coscienza - e anche al suo vicino, anzi a tutto il gregge! Soprattutto a questo proposito abbiamo modificato completamente le nostre convinzioni.

179. Pensieri.

I pensieri sono le ombre delle nostre percezioni - sempre più scuri, più vuoti, più semplici di queste.

196.

Limiti del nostro udito.

Si odono soltanto le domande a cui siamo in grado di rispondere.

Libro quarto

278.

Il pensiero della morte.

Mi dà una felicità malinconica il pensiero di vivere nel mezzo di questo groviglio di vicoletti, di bisogni, di voci: quanti piaceri, impazienza, bramosie, quanta vita assetata ed ebbra di vita vi vengono alla luce in ogni istante! E tuttavia presto scenderà tanto silenzio su tutti questi esseri chiassosi, vivi, assetati di vita! Dietro ad ognuno c'è la sua ombra, il suo cupo compagno di strada! E sempre come all'ultimo momento prima della partenza di una nave di emigranti: ci sono più cose da dirsi che mai, l'ora incalza, dietro tutto quel chiasso attendono impazienti l'oceano e il suo desolato silenzio - così avidi, così sicuri del loro bottino. E tutti, tutti sono convinti che finora non ci sia stato niente o poco e che il futuro sia tutto: donde questa fretta, queste grida, questo assordarsi e circonvenirsi!

Ciascuno vuole essere il primo di questo futuro, e tuttavia l'unica cosa sicura e comune a tutti di questo futuro sono la morte e il silenzio di morte! Strano che questa unica sicurezza, questo unico elemento comune non possa pressoché niente sulla folla, e che essa sia lontanissima dal ritenersi la confraternita della morte! Mi rende felice vedere che gli uomini non vogliono assolutamente pensare il pensiero della morte! Mi piacerebbe fare qualcosa per rendere loro il pensiero della vita cento volte più degno di essere pensato.

284.

La fede in sé.

Sono pochissimi coloro che hanno fede in sé: e di questi, gli uni se la ritrovano addosso, come utile cecità o parziale oscuramento del loro spirito (che cosa scorgerebbero se potessero vedere se stessi fino in fondo!), gli altri invece se la debbono conquistare; tutto ciò che di buono, valoroso, grande essi compiono è così un argomento contro lo scettico che dimora in loro: occorre convincerlo o persuaderlo, e a tal fine ci vuole quasi un genio. Sono i grandi insoddisfatti di sé.

317.

Sguardo retrospettivo.

Raramente siamo coscienti del vero pathos che caratterizza ogni periodo della nostra vita, almeno finché ci restiamo, ma pensiamo sempre che esso costituisca l'unico stato possibile e ragionevole e che si tratti comunque di un ethos, non di un pathos - per parlare come i Greci e operare le loro stesse distinzioni. Alcune note musicali mi richiamano adesso alla memoria una casa e un periodo estremamente eremitico della mia vita, insieme alla sensazione in cui allora vivevo, - di poter cioè vivere eternamente così. Ma adesso comprendo che era in tutto e per tutto pathos e passione, una cosa paragonabile a questa musica doloroso-coraggiosa e confortevole-sicura, che non si può avere per anni o addirittura

322.

Parabola.

Quei pensatori in cui tutte le stelle si muovono secondo orbite cicliche non sono i più profondi; chi guarda in se stesso come in un immenso universo e porta in sé le sue vie lattee, sa anche quanto irregolari siano tutte le vie lattee; esse conducono fino nel caos e nel labirinto dell'esistenza.

335.

Viva la fisica!

Quanti sono gli uomini che sanno osservare? E tra quei pochi che lo sanno fare, - quanti osservano se stessi? «Ciascuno è lontanissimo da se stesso» - lo sanno, con loro grande disagio, tutti coloro che scrutano le viscere; e la massima «Conosci te stesso!» è quasi, rivolta all'uomo da un dio, una malvagità.

Che l'introspezione sia una faccenda disperata, tuttavia, è testimoniato soltanto dal modo in cui quasi tutti parlano dell'essenza di un'azione morale; questo modo affrettato, volenteroso, convinto, verboso, col suo sguardo, il suo sorriso, il suo zelo servizievole!

Sembra che ti si voglia dire: «Caro mio, questo riguarda me! Stai rivolgendo la tua domanda proprio a colui che può risponderti: si dà il caso che non ci sia campo in cui io sia più saggio. Allora: quando l'uomo giudica questo è giusto e ne conclude perciò deve accadere, facendo quindi quanto ha riconosciuto giusto e definito necessario, - l'essenza della sua azione è morale!». Però, amico mio, tu mi vai parlando di tre azioni invece che di una: anche il tuo giudicare «questo è giusto», tanto per fare un esempio, è un'azione; non potrebbe anche il giudicare, a sua volta, essere morale o immorale? Perché ritieni che questo sia giusto o questo no? «Perché me lo dice la mia coscienza: la coscienza non parla mai in modo immorale, ed è la prima a determinare che cosa debba essere morale!»

Ma perché ascolti la voce della tua coscienza? E in che misura hai diritto di considerare vero e infallibile un tale giudizio? Di questa fede - non c'è più coscienza? Non sai niente di una coscienza intellettuale? Una coscienza dietro la tua «coscienza»? Il tuo giudizio «così è giusto» ha una preistoria nei tuoi istinti, nelle tue inclinazioni, avversioni, esperienze e non-esperienze; ti devi domandare «come è nato?», e poi ancora «che cos'è che mi spinge a dargli ascolto?». Tu puoi dare ascolto ai suoi ordini come un bravo soldato che esegue gli ordini del suo ufficiale. O come una donna che ama colui che le impartisce gli ordini. O come un adulatore vigliacco che teme colui che impartisce gli ordini. O come uno stupido che esegue perché non ha niente in contrario. In breve, tu puoi dare ascolto alla tua coscienza in centinaia di modi.

Che tu percepisca questo o quel giudizio come lingua della coscienza, che tu senta qualcosa come giusto, può tuttavia dipendere dal fatto che non hai mai riflettuto su te stesso e hai sempre accettato ciecamente quanto ti è stato indicato sin dall'infanzia come giusto; oppure dal fatto che sinora insieme a quelli che chiami i tuoi doveri - ti sono sempre pervenuti pane e onori: ti sembra cioè «giusto» perché ti pare la tua «condizione esistenziale» (il tuo diritto all'esistenza ti risulta assolutamente inconfutabile!) La solidità del tuo giudizio morale potrebbe pur sempre essere una prova della tua miserabile situazione personale, della tua mancanza di personalità; la tua «forza morale» potrebbe essere originata dalla tua caparbietà - o dalla tua incapacità di guardare a nuovi ideali! E, per farla breve: se tu avessi pensato con maggiore finezza, osservato meglio e imparato di più, non chiameresti in nessun caso «dovere» e «coscienza», questo tuo «dovere» e questa tua «coscienza», perché la consapevolezza del modo in cui sono nati i giudizi morali ti farebbe passare la voglia di usare queste parole patetiche, come già non usi più altre parole patetiche, ad esempio «peccato», «salvezza dell'anima», «redenzione».

E adesso non venirmi a parlare dell'imperativo categorico, amico mio!... Questa parola mi fa il solletico all'orecchio, e io debbo ridere, nonostante la serietà delle circostanze: il pensiero corre al vecchio Kant, il quale, a titolo di punizione per essersi carpito «la cosa in sé» - (anche questa espressione assai ridicola), - fu a sua volta carpito dall'«imperativo categorico» col quale, nel suo cuore, si smarrì nuovamente fino a giungere a «Dio», «anima», «libertà» e «immortalità», come una volpe che, smarrendosi, ritorna nella gabbia -ed erano state proprio la sua forza e la sua astuzia a permettergli di infrangere quella gabbia!

- Come? Tu ammiri l'imperativo categorico in te? Questa «solidità» del cosiddetto giudizio morale? Questo sentire «incondizionatamente» che «tutti debbono giudicare come giudico io?». In questo puoi semmai ammirare il tuo egoismo! E la cecità, la piccineria e la mancanza di pretese del tuo egoismo! E’ infatti egoismo percepire il proprio giudizio come legge universale; a maggior ragione un egoismo cieco, piccino e senza pretese perché tradisce il fatto che tu non hai ancora scoperto te stesso né ti sei ancora creato un ideale tuo proprio: questo infatti non potrebbe mai essere quello di un altro, figuriamoci poi di tutti, tutti!

Chi giudica ancora che «in questo caso tutti dovrebbero agire così» non ha compiuto neppure cinque passi sulla via della conoscenza di sé: altrimenti saprebbe che non ci sono né possono esserci azioni uguali; che ogni azione compiuta è stata compiuta in modo unico e irripetibile, e lo stesso dicasi di ogni azione ventura; che le norme dell'agire si riferiscono soltanto al volgare aspetto esteriore dell'agire stesso (e lo stesso vale per i precetti più intimi e raffinati di tutte le morali che si sono succedute sinora); che le azioni possono sì mostrare una parvenza di uguaglianza, ma niente di più che una parvenza; che ogni azione, che la si consideri in anticipo o retrospettivamente, è e rimane una cosa impenetrabile; che la nostra opinione di «buono», «nobile», «grande» non può mai essere dimostrata dalle nostre azioni, perché ogni azione è inconoscibile; che sicuramente le nostri opinioni, i nostri giudizi di valore e le nostre tavole di valori sono tra le leve più potenti nell'ingranaggio delle nostre azioni e purtuttavia la legge della loro meccanica è, nel singolo caso, indimostrabile.

Limitiamoci allora alla pulizia delle nostre opinioni e dei nostri giudizi di valore e alla creazione di tavole di valori che siano nuove e propriamente nostre, senza stare più a rimuginare sul «valore morale delle nostre azioni»! Sì, amici miei! giunta l'ora di provare nausea per tutte le chiacchiere morali degli uni sugli altri! Istituire tribunali morali ci deve sembrare contrario a ogni gusto!

Lasciamo stare queste chiacchiere e questo cattivo gusto a coloro che non hanno nient'altro da fare se non trascinare il passato per un altro po' e che non sono mai presente - cioè ai molti, ai più! Noi però vogliamo divenire coloro che siamo; - nuovi, unici, incomparabili, legislatori di noi stessi, creatori di noi stessi! E allora dobbiamo divenire i migliori nello scoprire quello che in questo mondo è regolato da leggi e necessario: dobbiamo essere fisici per poter essere, in quel senso, creatori; mentre sinora tutte le valutazioni e gli ideali erano costruiti sulla non conoscenza della fisica o in contraddizione con essa. E quindi: viva la fisica! E ancora di più quello che ci spinge verso di lei, - la nostra rettitudine!

Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno (1885)

Parte prima - I discorsi di Zarathustra

Dell'amore del prossimo

Vi affollate intorno al prossimo e avete belle parole per questo. Ma io vi dico: il vostro amor del prossimo è il vostro cattivo amore per voi stessi.

Sfuggite a voi stessi cercando il prossimo e vorreste farvene una virtù: ma io leggo nel vostro «altruismo».

Il tu è più vecchio dell'io; il tu è stato santificato, l'io non ancora: così l'uomo si spinge verso il prossimo.



Della libera morte

Ci sono invero mele aspre la cui sorte è di attendere l'ultimo giorno dell'autunno: ma nel frattempo diventano mature, gialle e rugose.

Ad altri invecchia prima il cuore, ad altri prima lo spirito. E certuni sono vecchi in gioventù: ma essere giovani tardi mantiene giovani a lungo.

A qualcuno la vita non riesce: un verme velenoso gli rode il cuore. Dia almeno l'impressione che il morire gli riuscirà per questo meglio.

Qualcuno non diventa mai dolce, marcisce già durante l'estate. Vita è quel che lo trattiene al suo ramo.

Troppi vivono e troppo a lungo restano sui loro rami.


Parte seconda

Delle tarantole

Ciò che il padre tacque, parla nel figlio; e spesso il figlio mi apparve il segreto denudato del padre.

Dell'autosuperamento

E la terza cosa che udii è: che comandare è più difficile che obbedire. E non solo che chi comanda porta il peso di tutti coloro che obbediscono e che questo peso è facile che lo schiacci.

Un tentativo e un azzardo scorsi in ogni comandare; e ogni volta che comanda, l'essere vivente azzarda se stesso.

Anche quando comanda a se stesso: anche allora deve scontare il suo ordinare. Della propria legge deve diventare il giudice, il vincitore, e la vittima.

Come può avvenire ciò? Mi chiesi. Che cosa induce l'essere vivente ad obbedire e a comandare e a esercitare obbedienza anche nel comando stesso?

Udite solo una parola, saggi fra i saggi! Esaminate attentamente se io sia penetrato fino al cuore della vita e fino alle radici del suo cuore!

Dove trovai essere vivente, là trovai volontà di potenza; e anche nella volontà di chi serve trovai la volontà di essere padrone.

A credere che il più debole debba servire il più forte, il più debole è persuaso dalla sua stessa volontà, che vuole essere padrona di un più debole ancora: a questo solo piacere esso non può sottrarsi.

Parte terza

Il viandante

Mi trovo davanti al più alto dei miei monti e alla più lunga delle mie peregrinazioni: perciò devo scendere più in fondo di quanto non sia mai salito:

- più in fondo nel dolore di quanto non sia mai salito; fin dentro il suo flutto più nero! Così vuole il mio destino: orsù! Io sono pronto.

Di dove vengono le montagne più alte? chiesi una volta. Allora appresi che vengono dal mare.

Questa testimonianza è scritta nella loro pietra e nelle pareti delle loro vette. Dal più profondo deve ascendere la cosa più alta alla sua altezza.

Sull’uliveto

Questa è la saggia protervia e la retta volontà della mia anima, che essa non cela i suoi inverni e le sue gelide bufere; e non cela nemmeno i suoi geloni.


La volontà di potenza. Scritti postumi per un progetto (1887-1888)

38.

Dalla pressione della pienezza, dalla tensione delle forze che crescono continuamente dentro di noi e non hanno ancora la capacità di liberarsi, si crea uno stato simile a quello che precede un temporale: la natura, che noi siamo, si oscura. Anche questo è pessimismo... Una dottrina che mette fine a un tale stato, ordinando qualcosa, una trasvalutazione dei valori, grazie alla quale viene indicata una via, una direzione alle forze accumulate, così da farle esplodere in lampi e azioni non occorre che sia necessariamente una dottrina della felicità: liberando forza che si concentrava e si comprimeva fino al tormento, porta felicità.

75.

La soddisfazione della volontà non è causa del piacere: voglio combattere questa teoria molto superficiale in modo particolare. L'assurda falsificazione psicologica delle cose più vicine...

ma che la volontà vuole andare avanti e sempre di nuovo dominare su quello che le viene incontro: il sentimento di piacere sta proprio nell'insoddisfazione della volontà, in questo, che senza limiti e resistenze non è ancora paga abbastanza...

76.

La normale insoddisfazione dei nostri istinti, per esempio della fame, dell'istinto sessuale, del movimento, non ha in sé ancora nulla di depotenziato; ha l'effetto piuttosto di provocare il sentimento vitale, come lo fortifica ogni ritmo di piccoli stimoli dolorosi, qualunque cosa possano raccontarci i pessimisti: questa insoddisfazione, invece di guastare la vita, è il grande stimulans della vita.

Si potrebbe forse contrassegnare il piacere in generale come un ritmo di piccoli stimoli di dispiacere...

92.

Mi prendo la libertà di scordarmi di me. Dopodomani sarò di nuovo a casa con me.

98.

Valore della caducità: qualcosa che non ha alcuna durata, che contraddice se stesso, ha poco valore. Ma le cose che crediamo durature sono in quanto tali pure finzioni. Se tutto scorre, allora la caducità è una qualità (la «verità») e la durata e l'eternità solo un'apparenza.

118.

Noi iperborei

La mia conclusione è: che l'uomo reale costituisce un valore molto più elevato dell'uomo «desiderabile» di qualunque ideale fin ora perseguito; che tutte le «desiderabilità» rispetto all'uomo sono state esagerazioni assurde e rischiose, attraverso le quali un'unica specie d'uomo ha potuto addossare all'umanità le proprie condizioni di conservazione e di crescita come legge; che ogni «desiderabilità» di siffatta origine pervenuta al dominio ha finora ridotto il valore dell'uomo, la sua forza, la sua certezza di futuro; che, ancor oggi, è nel desiderare, che si mette più a nudo la povertà e l'intellettualità da conventicola dell'uomo; che la facoltà dell'uomo di porre valori è stata finora troppo poco sviluppata per poter far giustizia all'effettivo, non solo «desiderabile», valore dell'uomo; che l'ideale è stato finora la vera forza diffamatrice del mondo e dell'uomo, il soffio venefico sulla realtà, la grande seduzione al nulla...

124.

Se siamo «disingannati», non lo siamo nei confronti della vita, ma in quanto abbiamo aperto gli occhi sulle «desiderabilità» di ogni genere. Guardiamo con una rabbia beffarda a quello che si chiama «ideale»: ci disprezziamo solo per non saper soffocare in ogni momento quel movimento che si chiama «idealismo». La cattiva abitudine è più forte della rabbia del disingannato...

180.

Riguardo al dormire, aventure sinistre de tous les soirs, si può dire: gli uomini si addormentano con un'audacia che sarebbe incomprensibile, se non sapessimo che deriva dall'ignoranza del pericolo.

140.

quanto più do ragione e mi faccio uguale, tanto più vado a finire sotto il dominio dei più mediocri, infine dei più numerosi.-

213.

C'est cette horreur de la solitude, le besoin d'oublier son moi dans la chair extérieure, que l'homme appelle noblement besoin d'aimer.

336.

Tutti sono infelici perché temono di affermare la loro libertà. L'uomo è stato finora così infelice e così misero, perché non ha osato mostrarsi libero nel senso più alto della parola, perché si è accontentato di un'insubordinazione da scolaretto... Sono tremendamente infelice, perché ho tremendamente paura. La paura è la maledizione dell'uomo.

339.

Che cosa mi procura più fastidio? Vedere che ormai nessuno ha più il coraggio di pensare fino in fondo...

256.

L'ingresso nella vera vita si salva dalla morte la propria vita personale vivendo la vita universale.

Ecce Homo. Come si diventa ciò che si è (1888)

Perché sono così saggio

1.

La felicità della mia esistenza, la sua unicità forse, sta nella sua fatalità: per parlare per enigmi, in quanto mio padre sono già morto, in quanto mia madre vivo ancora e invecchio.

Questa doppia origine, per così dire dal più alto come dal più basso germoglio sulla scala della vita, décadent e insieme cominciamento - se c'è qualcosa che spieghi quella neutralità, quella libertà da ogni fazione di fronte al problema della vita nel suo complesso, che forse mi contraddistingue, è proprio questo. Io ho, per i segni dell'ascesa e del declino, più fiuto di quanto un uomo abbia mai avuto, io sono, in questo, il maestro par excellence, - conosco l'una e l'altro, sono l'una e l'altro.

- Mio padre morì a trentasei anni: era tenero, amabile e morboso, come un essere destinato solo a passare oltre piuttosto un ricordo benevolo della vita, che la vita stessa. Nello stesso anno in cui la sua vita declinò, declinò anche la mia: nel trentaseiesimo anno la mia vitalità toccò il punto più basso, vivevo ancora, tuttavia senza vedere a tre passi davanti a me. Allora era il 1879 lasciai la cattedra di Basilea, passai l'estate a St. Moritz, come un'ombra, e l'inverno seguente, il più privo di sole della mia vita, a Naumburg, ero un'ombra. Fu il mio minimum: «Il viandante e la sua ombra», nacque in quel periodo. Senza alcun dubbio allora mi intendevo di ombre...

L'inverno seguente, il mio primo inverno genovese, quell'addolcimento e quella spiritualizzazione che un estremo impoverimento del sangue e dei muscoli comporta quasi inevitabilmente, portò alla nascita di Aurora. La limpidezza perfetta e la serenità, l'esuberanza quasi dello spirito, che quest'opera riflette, si accordano in me non solo con la più profonda debolezza fisiologica, ma addirittura con un eccesso di sensazioni dolorose. Nel martirio che mi causava un'ininterrotta emicrania di tre giorni consecutivi, accompagnata da un penoso vomito di muco, possedevo una chiarezza dialettica par excellence ed esaminavo con grande sangue freddo cose per le quali, in migliori condizioni di salute, non sono uno scalatore sufficientemente ardito, sufficientemente raffinato, sufficientemente freddo.

I miei lettori sanno forse fino a qual punto io consideri la dialettica come un sintomo di décadence, per esempio nel caso più famoso: quello di Socrate.

Tutti i turbamenti morbosi dell'intelletto, anche quel mezzo stordimento che segue alla febbre, mi sono rimasti fino ad oggi completamente estranei: ho dovuto informarmi sui libri della loro natura e della loro frequenza. Il mio sangue scorre lentamente. Nessuno ha mai potuto accertare la febbre su di me. Un medico, che mi curò a lungo come malato di nervi, disse alla fine: «no! i suoi nervi non hanno niente, sono io che sono nervoso». In definitiva nessuna degenerazione locale accertabile; nessun mal di stomaco di natura organica, per quanto sappia, come conseguenza di un esaurimento generale, di una fortissima debolezza del sistema gastrico. Anche il dolore agli occhi, che si avvicina a volte, pericolosamente, alla cecità, è solo una conseguenza, non una causa: di modo che ogni accrescimento della forza vitale ha accresciuto la forza visiva.

Guarigione vuol dire, per me, una lunga, troppo lunga serie di anni, significa purtroppo anche ricaduta, declino, periodicità di ogni genere di decadence. Ho forse bisogno di dire, dopo tutto ciò, che sono esperto in materia di décadence? La ho sillabata da ogni lato. E anche quell'arte della filigrana dell'afferrare e comprendere in generale, quel tocco per le nuances, quell'attitudine psicologica a «vedere dietro l'angolo», e ogni altra cosa che mi distingue, l'ho imparata allora, è il vero dono di quel tempo nel quale ogni cosa si affinò in me, l'osservazione come tutti gli organi dell'osservazione. Partendo dall'ottica del malato, considerare i concetti e i valori più sani, poi, al contrario, partendo dalla pienezza e dalla sicurezza di sé della vita ricca, guardare in basso, nel lavoro segreto dell'istinto di décadence questo è stato il mio esercizio più lungo, la mia vera e propria esperienza, se sono stato maestro in qualche cosa lo sono stato qui. Ora l'ho in mano, mi sono fatto la mano a rovesciare le prospettive: ragione prima per la quale a me solo, forse, è possibile una «trasvalutazione dei valori».

2.

Indipendentemente dal fatto che sono un décadent, sono anche il suo contrario. Prova ne è, tra l'altro, che contro le condizioni spiacevoli ho sempre scelto, istintivamente, gli strumenti adatti: mentre il décadent in sé sceglie sempre gli strumenti che lo danneggiano. Come summa summarum ero sano; ma nel dettaglio, nella peculiarità ero decadent. Quell'energia per conquistare un assoluto isolamento e distacco dalle condizioni abituali, la violenza con la quale mi sono imposto di non lasciarmi più curare, servire, coccolare dai medici tutto questo tradisce l'assoluta sicurezza dell'istinto per quanto riguarda ciò di cui allora, avevo soprattutto bisogno. Mi presi in mano, mi guarii io stesso: la condizione per questo ogni fisiologo lo ammetterà è che si sia fondamentalmente sani. Un essere tipicamente morboso non può guarire, tanto meno guarirsi; per uno tipicamente sano, al contrario, la malattia può essere addirittura un energico stimolante al vivere, al viveredipiù.

E’ così infatti che mi appare ora quel lungo periodo di malattia: scoprii, per così dire, di nuovo la vita, me stesso incluso, gustai tutte le cose buone, anche le piccole cose, come altri non avrebbero facilmente potuto gustarle, feci della mia volontà di salute, di vita, la mia filosofia... Poiché, si faccia attenzione, gli anni della mia minore vitalità furono quelli in cui cessai di essere pessimista: l'istinto dell'autoristabilirsi mi proibiva una filosofia della povertà e dello scoraggiamento... E da cosa, in fondo, si riconosce l'essere benriuscito? Dal fatto che un uomo benriuscito fa bene ai nostri sensi: dal fatto ch'è tagliato in un legno duro, tenero e profumato al tempo stesso. Gli piace solo ciò che gli si conviene; il suo piacere, il suo desiderio cessano non appena la misura di ciò che conviene viene superata. Egli indovina i rimedi contro le ferite, utilizza a suo vantaggio le disavventure; ciò che non lo uccide lo rende più forte. Raccoglie istintivamente, di tutto ciò che vede, ode, vive, la sua somma: è un principio selettivo, elimina molte cose. E sempre nella sua società, sia che tratti con libri, uomini o paesaggi: onora in quanto sceglie, in quanto concede, in quanto dà fiducia. Reagisce lentamente ad ogni tipo di stimoli; con quella lentezza alimentata in lui da una lunga prudenza e da una deliberata fierezza esamina la sollecitazione che giunge, è ben lontano dall’andarle incontro. Non crede alla «disgrazia», né alla «colpa»: sa chiudere con sé, con gli altri, sa dimenticare, è forte abbastanza perché tutto debba venire a suo vantaggio. Ebbene, io sono l'opposto di un décadent: poiché ho descritto appunto me stesso.

3.

Io sono un nobiluomo polacco pur sang, in cui non c'è neppure una goccia di sangue cattivo e tantomeno di sangue tedesco. Se cerco la più profonda antitesi di me stesso, l'incalcolabile volgarità degli istinti, trovo sempre mia madre e mia sorella, credermi imparentato con una tale canaille sarebbe una bestemmia contro la mia divinità. Il trattamento che ricevo, fino a questo momento, da parte di mia madre e di mia sorella m'ispira un indicibile orrore: qui è all'opera una perfetta macchina infernale, con infallibile sicurezza sul momento in cui si può ferire a sangue nei miei momenti più alti... perché allora manca ogni forza per difendersi contro questo velenoso vermicaio... La contiguità fisiologica rende possibile una tale disharmonia praestabilita... Ma io confesso che l'obiezione più profonda contro l'«eterno ritorno», il mio pensiero propriamente abissale, sono sempre la madre e la sorella.

4.

Qualunque sia lo strumento, per quanto scordato, come solo lo strumento «uomo» può esserlo dovrei essere malato, per non riuscire a trarne qualcosa di ascoltabile. E quante volte mi è stato detto da questi stessi «strumenti» che non sì erano ancora mai sentiti suonare a quel modo...

5.

Il mio genere di rappresaglie consiste nel far seguire il più rapidamente possibile una cosa intelligente a una sciocchezza: così, forse, la si recupera. Per usare una metafora: spedisco un vaso di confitures per liberarmi di una storia inacidita...

6.

Poiché ci si consumerebbe troppo rapidamente, se d'altra parte si reagisse, non si reagisce più: questa è la logica. E con nulla si brucia più in fretta che con le passioni del ressentiment. La rabbia, la vulnerabilità morbosa, l'incapacità di vendicarsi, il desiderio, la sete di vendetta, l'intossicare in ogni senso questo è certamente, per chi è stremato, il modo più negativo di reagire: comporta un rapido dispendio di forza nervosa, un morboso aumento di secrezioni nocive, ad esempio della bile nello stomaco.

Perché sono così accorto

8.

In tutto ciò nella scelta dei cibi, del luogo e del clima, del riposo domina un istinto di autoconservazione, che nel modo più netto si esprime come istinto di autodifesa. Non vedere, non udire, non farsi avvicinare da molte cose prima astuzia, prima dimostrazione che non vi è un caso, bensì una necessità. La parola corrente, per questo istinto di autodifesa, è gusto. Il suo imperativo non ci ordina solo di dire no, dove il sì sarebbe segno di «altruismo», ma anche di dire no il meno possibile. Separarsi, dividersi da ciò dove il no sarebbe continuamente necessario. La ragione di ciò sta nel fatto che le spese difensive, anche minime, diventando regola, abitudine, determinano un impoverimento straordinario e assolutamente superfluo. Le nostre grandi spese sono le piccole spese che si ripetono. Il difendersi, il non lasciarsi avvicinare è una spesa non ci si inganni qui , una forza sprecata per fini negativi. Unicamente per la costante necessità di difendersi, si può diventare troppo deboli per potersi ancora difendere.

Un'altra astuzia e autodifesa consiste nel fatto di reagire il più raramente possibile e di sottrarsi a situazioni e condizioni nelle quali ci si troverebbe costretti a esporre, per così dire, la propria «libertà», la propria iniziativa e diventare un semplice reagente. Prendo a paragone il rapporto con i libri. Il dotto, che in fondo si limita a «compulsare» i libri circa duecento al giorno per il filologo di capacità media - perde alla fine completamente la capacità di pensare da solo. Se non compulsa non pensa. Quando pensa, risponde a uno stimolo (- un pensiero letto) alla fine non fa che reagire. Il dotto pone tutta la sua energia nel dire sì e no, nella critica del già pensato, egli stesso non pensa più... L'istinto d'autodifesa si è rammollito; diversamente si rivolterebbe contro i libri. Il dotto un décadent. L'ho visto con i miei occhi: nature dotate, ricche e nate per essere libere «ammazzate dalla lettura» già a trent'anni, ridotti ormai a fiammiferi, che bisogna strofinare perché diano scintille - «pensieri» -. Leggere un libro di prima mattina, al giungere del giorno, nella piena freschezza, nell'aurora della propria forza, questo io lo chiamo vizio!-

Crepuscolo degli idoli; o come si filosofa col martello (1888)

Prefazione

Conservare la propria serenità in una faccenda fosca e di smisurata responsabilità non è abilità da poco: eppure, che cosa sarebbe più necessario della serenità? Nulla riesce, se la baldanza non vi ha la sua parte. Solo un eccesso di forza è la dimostrazione della forza.

Detti e frecce

35.

Ci sono casi in cui siamo come cavalli, noi psicologi, e ci prende l'irrequietezza: vediamo la nostra ombra ondeggiare su e giù davanti a noi. Lo psicologo deve prescindere da sé, per poter in genere vedere.

Scorribande di un inattuale

7.

Morale per psicologi. Non fare della psicologia da venditori ambulanti! Mai osservare per osservare! Ciò dà una falsa ottica, uno strabismo, qualcosa di forzato e di esagerato. Vivere un'esperienza per voler vivere un'esperienza - non porta a nulla. Vivendo un'esperienza, non è lecito guardare a sé, ogni sguardo diventa allora «malocchio». Uno psicologo nato evita per istinto di vedere per vedere; lo stesso vale per il pittore nato. Egli non lavora mai «secondo la natura», - lascia al suo istinto, alla sua camera obscura, di filtrare ed esprimere il «caso», la «natura», l'«esperienza vissuta»... Solo dell'universale egli diviene cosciente, della conclusione, del risultato: quell'arbitrario astrarre dal singolo caso egli non lo conosce.

Cosa succede se ci si comporta diversamente? Se per esempio, al modo dei romanciers parigini, si fa in grande e in piccolo una psicologia da venditori ambulanti? In questo modo si tendono per così dire agguati alla realtà, in questo modo si porta a casa ogni sera una manciata di cose curiose...

Ma si guardi solo a che cosa ne viene fuori alla fine - un mucchio di scarabocchi, nel migliore dei casi un mosaico, in ogni caso qualcosa di addizionato insieme, di inquieto, di stridente.

26.

Non ci stimiamo più abbastanza quando apriamo il nostro cuore. Le nostre vere e proprie esperienze vissute non sono affatto loquaci. Non potrebbero comunicare se stesse neppure se volessero. Questo perché manca loro la parola. Le cose per le quali troviamo parole, sono anche quelle che abbiamo già superato. In ogni discorso c'è un granello di disprezzo. La lingua, a quanto sembra, è stata inventata soltanto per ciò che è mediocre, medio, comunicabile. Con il linguaggio, chi parla già si volgarizza. - Da una morale per sordomuti e altri filosofi.

Nietzsche contra Wagner Documenti di uno psicologo (1889)

Torino, Natale 1888

Lo psicologo prende la parola

1. Quanto più uno psicologo, uno psicologo e indovino d'anime per innata e fatale predisposizione, si volge ai casi e agli uomini più scelti, tanto più grande diventa per lui il pericolo di soffocare per la compassione. Più che a ogni altro uomo gli sono necessarie durezza e serenità. La rovina, il fallimento degli uomini superiori sono infatti la regola: è terribile avere sempre sotto gli occhi una tal regola. Il molteplice tormento dello psicologo che ha scoperto questa rovina, che ha scoperto una prima volta e poi torna quasi sempre di nuovo a scoprire, nel corso di tutta la storia, tutta questa interiore «inguaribilità» dell'uomo superiore, questo eterno «troppo tardi!» in ogni senso potrà forse un giorno diventare la causa del suo stesso rovinarsi...

In quasi ogni psicologo si osserva una rivelatrice predisposizione a frequentare persone comuni e bene ordinate: in ciò si palesa il fatto che egli necessita sempre di una guarigione, che ha bisogno di una sorta di fuga e di oblio, va da ciò che gli hanno posto sulla coscienza il suo incider nel profondo, il suo guardare nel profondo, il suo mestiere. E' caratteristico in lui il timore della propria memoria. Di fronte al giudizio altrui facilmente ammutolisce, ascolta con viso impassibile come si veneri, si ammiri, si ami, si trasfiguri là dove egli ha visto-, oppure nasconde anche il suo ammutolire, acconsentendo espressamente a una qualsiasi superficiale opinione. Forse la paradossalità della sua situazione arriva a tal punto, che proprio là dove egli ha imparato la grande compassione accanto al grande disprezzo, i «colti» dal canto loro apprendono la grande venerazione...

E chissà che in tutti i grandi casi non sia accaduto proprio questo che si adorasse un dio e che il dio fosse soltanto una povera vittima sacrificale...